Uno dei temi che più frequentemente affronto nei percorsi di coaching è la distinzione tra vittima e responsabile.

La vittima, dal mio punto di vista, è chi ha una conversazione che rimanda ad altri, ad altro da sé, la genesi e il manifestarsi di un problema. “Il mio capo non mi ascolta”, “qui si prendono sempre decisioni assurde”, “nessuno me lo ha chiesto”, “questa è la company policy”, “nessuno mi ha avvertito”, “non dipende da me”, “non posso farci nulla”, sono affermazioni che spesso ascoltiamo nella vita professionale ed in quella personale. A mio parere si tratta di opinioni che hanno il vantaggio di tranquillizzarci, di rassicurarci: quello che sta succedendo non dipende da me!. Così la vittima non si riconosce come parte del problema che lo affligge, anzi attribuisce al mondo esterno la causa della situazione, cerca colpevoli, qualcuno da biasimare.

Certo, è solo colpa degli altri, di cose o persone o eventi esterni a noi che non possiamo controllare, quindi siamo innocenti. Ma se qualcun altro governa la situazione ed è colpevole di ciò che ci sta accadendo , allora non c’è niente che possiamo fare, le nostre possibilità di azione sono ridotte a zero, nulla dipende da noi, quindi siamo completamente impotenti.

Il responsabile invece, davanti ad una difficoltà, ha una conversazione interna ed esterna in cui si dichiara parte del problema. Il responsabile infatti si domanda costantemente “cosa posso fare io in questa situazione” e di conseguenza si riconosce il potere di agire per trovare una soluzione. Intendo la responsabilità non come colpa, ma come respons-abilità, l’abilità a rispondere ad una data situazione: quindi capacità di elaborare il maggior numero di azioni possibili per la risoluzione del problema.

Avere una conversazione respons-abile, considerarsi parte del problema, apre allora possibilità di azione. Quando guardiamo la situazione in modo respons-abile, ci daremo potere e troveremo nuove possibili azioni che non avevamo visto prima.

Su questo mi piace ricordare Fernando Flores, (https://en.wikipedia.org/wiki/Fernando_Flores) , in quello che io considero il più alto esempio di respons-abilità.

Fernando nel 1973 era un 33enne ministro dell’economia cilena, nel governo di Salvador Allende, presidente democraticamente eletto, e morto in un sanguinoso colpo di stato. Flores venne imprigionato, sottoposto a tristi processi farsa, e punito con la reclusione. Per tre anni, rimase separato dalla moglie e i cinque figli; per qualche fortunato motivo attirò l’attenzione di Amnesty International, che ottenne la sua liberazione dal carcere nel 1976. In esilio a Palo Alto, Fernando sviluppò i suoi studi, soprattutto Martin Heidegger, Humberto Maturana, John Austin; oggi è un coach e consulente aziendale di primissimo livello mondiale.

Dei suoi tre anni nelle carceri di Pinochet scrive quello che per me è l’apice sulla respons-abilità :

“Quando sono uscito di prigione, ho dovuto capire come abbracciare il mio passato, Quei tre anni hanno rappresentato una tragedia che ho usato per ri-creare me stesso, non qualcosa che è stato fatto a me. Non ho mai incolpato Pinochet, o i miei torturatori, o le circostanze esterne. Mi sento ‘co-responsabile’ per gli eventi che hanno avuto luogo; non ho mai raccontato una storia da vittima della mia prigionia, invece, ho raccontato una storia di trasformazione , su come la prigione ha cambiato la mia visione, di come ho visto che la comunicazione, la verità, e la fiducia sono al cuore della forza, ho fatto la mia valutazione della mia vita, e ho iniziato a viverla. Quella era la libertà. “.

Allora ci basta davvero dire che la responsabilità è fuori da noi e dichiararci così innocenti (ed impotenti)? Quanto questo atteggiamento è coerente con le posizioni, magari apicali, che occupiamo in azienda (ed anche a livello personale…)? Quanto potremmo cambiare della nostra situazione, di quella dei nostri team e di chi ci sta vicino, assumendo un approccio respons-abile?