Secondo una ricerca Gallup pubblicata nel 2018, tre sono i requisiti per generare un contesto inclusivo in azienda:
1) Rispetto.
Perché sul posto di lavoro ci sia rispetto reciproco, collaboratori e management devono ricordare che il rispetto è negli occhi di chi guarda – ed ha a che vedere principalmente con come un individuo si sente durante un’interazione.
Trattare qualcuno con rispetto implica prima di tutto riconoscerlo, accettarlo; a mio parere c’è una profonda distinzione tra tolleranza ed accettazione.
Spesso tolleriamo comportamenti che non condividiamo, che giudichiamo non legittimi e dannosi. Facciamo questo per calcoli diversi o solo per quieto vivere. Dietro alla tolleranza c’è l’idea che noi possediamo la verità, e che gli altri stanno sbagliando. Quando tolleriamo stiamo solo rinviando lo scontro ad un momento che riterremo più favorevole o a quando non riusciremo più a nascondere il nostro disaccordo.
Accettazione è invece riconoscere di non possedere la verità, che la posizione dell’altro è tanto legittima quanto la mia. L’accettazione parte dall’idea che non esiste una verità assoluta, ma solo punti di vista diversi che creano opinioni diverse, che possono quindi coesistere nel rispetto reciproco.
Il rispetto reciproco consente ai membri del team di sentirsi a proprio agio nel proporre soluzioni innovative. C’è apertura al dialogo quando i dipendenti sentono di poter essere sé stessi, e si sentono a proprio agio nel condividere opinioni, idee e valori senza temere conseguenze negative. Più le persone possono essere sé stesse in azienda più sono impegnate e raggiungono prestazioni superiori rispetto alla media; i team più inclusivi sono quelli che valorizzano contributi ed opinioni contrastanti e che incoraggiano comportamenti collaborativi.
2) Essere riconosciuti per i propri punti di forza
Le persone vogliono essere accettate per le loro opinioni e riconosciute per le cose che fanno meglio, ovvero per i loro punti di forza. La conoscenza dei propri punti di forza consente alle persone di comprendere come tendono a pensare e ad agire, cosa li motiva. Aiuta anche a comprendere cosa non fanno al meglio e a identificare le aree di miglioramento e i punti ciechi nella relazione con gli altri.
La consapevolezza dei punti di forza aiuta anche a conoscere meglio modelli mentali e preconcetti attraverso cui ognuno di noi vede il mondo. I team con approccio inclusivo riconoscono che ognuno ha i suoi modelli mentali, i suoi pregiudizi, scorciatoie mentali spesso molto utili per prendere decisioni basate su convenzioni sociali e stereotipi. I pregiudizi sono parte delle dinamiche di gruppo: tutti li hanno in qualche misura e li portano in azienda.
I pregiudizi possono essere, ad esempio, su razza, genere, età, aspetto, educazione, personalità, città natale, stato civile, e possono permeare l’azienda ad ogni livello, portando a decisioni prese a favore di un gruppo ed a scapito di altri. È impossibile evitare i pregiudizi, ma è importante esserne consapevoli e sapere che hanno un’influenza significativa sugli atteggiamenti, le azioni e le decisioni delle persone.
3) Fiducia
I collaboratori hanno bisogno di fidarsi dei loro leader e della loro organizzazione. La fiducia è fondamentale in una cultura inclusiva, per consentire ai collaboratori di gestire le vulnerabilità e le incertezze che possono sorgere a causa delle differenze.
Nel mio approccio al coaching la fiducia è una conversazione, un’opinione, che a sua volta si basa su tre opinioni: competenza, affidabilità, sincerità.
A mio parere se non c’è fiducia non ci sono relazioni, se non ci sono relazioni non c’è azienda, mentre fidarsi degli altri apre infinite possibilità. Mi fiderà di qualcuno, in particolare dei leader, se li riterrò
– competenti del mercato, dell’azienda, del team, della gestione
– affidabili, ovvero se in passato hanno mantenuto gli impegni presi
– sinceri, se i fatti, i dati, gli analytics mostrano coerenza tra quello che il leader dice e quello che fa.
Uno degli elementi per creare e mantenere fiducia tra leader e collaboratori è la capacità e la volontà di un manager di favorire le conversazioni sulla diversità con trasparenza e empatia.
Le aziende che sviluppano proattivamente queste conversazioni e trasmettono apertamente i loro valori sulla diversità e sull’inclusione, promuovono ambienti “sicuri” in cui i dipendenti possono esprimersi liberamente, e non avvertano il bisogno di nascondersi (covering).
Le conversazioni in azienda sulla diversità possono a volte essere complesse, questo soprattutto per la preparazione dei leader.Tuttavia, quando i leader sono sinceramente aperti alla diversity e riflettono su come le identità personali e sociali possono influenzare le interazioni, sono in grado di costruire un ambiente di fiducia che contribuisca all’inclusione.
– Fiducia nell’organizzazione
Un collaboratore ha fiducia nell’organizzazione crede che questa non farà mai nulla, intenzionalmente, che sia dannoso per lui. Questo ha molto a che vedere con la sincerità, con il rispetto degli impegni che l’azienda dichiara di aver preso. Pregiudizi percepiti su assunzioni, incarichi, retribuzioni e promozioni possono erodere la convinzione di un collaboratore sul fatto che la sua azienda sia realmente impegnata su diversità e inclusione. Le organizzazioni hanno bisogno che i collaboratori le vedano come corrette, in particolare difronte a questioni di diversità. Altrimenti, avranno difficoltà nel costruire una cultura inclusiva e ad attrarre e mantenere una forza lavoro diversificata e impegnata.
Collegamento tra inclusione e impegno
Per impegno nel lavoro intendo il trasformare le nostre parole in azione, far nascere in azienda prodotti, attività, relazioni che prima non c’erano. Impegno ed inclusione appaiono come direttamente correlati. Da diverse ricerche appare che la maggioranza dei dipendenti “committed” percepisce la propria organizzazione come inclusiva, mentre quasi tutti i dipendenti non “committed” vedono la loro organizzazione come non inclusiva.
Sebbene l’impegno e l’inclusività restino a mio parere strettamente correlati, esistono comunque alcune importanti differenze. Quasi tutti i dipendenti che si sentono “inclusi” sono impegnati, ma secondo lo studio di Gallup i requisiti di cui sopra – vale a dire, rispetto, riconoscimento dei punti di forza, un’organizzazione in cui i leader fanno ciò che è giusto – devono essere considerati perché queste condizioni producano un ambiente in cui i dipendenti si sentano parte di una squadra e le loro idee e opinioni siano apprezzate.
Per quanto riguarda inclusion, queste sono le domande che credo dobbiamo porci nei percorsi di coaching e nella formazione in azienda:
- Quanto siamo impegnati ad aprire conversazioni sulla diversità in azienda?
- Quanto riconosciamo gli altri e riteniamo legittime le loro opinioni?
- Quanto riconosciamo i punti di forza dei colleghi e collaboratori?
- Quanto siamo sinceri, ovvero coerenti con gli impegni presi?